Introduzione: Anatomia di un Insulto sull’Asfalto
[In queste ore stanno risultando fatti che potrebbero stravolgere il senso della narrazione dell’evento in autostrada, ma comunque non cambia il valore profondo dell’articolo]
La scena ha una banalità quasi surreale. Un’area di sosta autostradale, uno di quei non-luoghi identici in tutto il mondo, intriso di odore di caffè e asfalto bollente. Un padre e il figlio di sei anni, turisti francesi, scendono le scale per raggiungere i servizi. Un dettaglio, però, spezza la normalità: sulla testa dell’uomo c’è una kippah. È un attimo. Quella piccola cupola di tessuto diventa un interruttore, un catalizzatore d’odio.
Dalla cassa parte un urlo: «Free Palestine!». Altri si uniscono. Le parole diventano pietre: «Assassini!». L’uomo viene spintonato, cade a terra, mentre il bambino osserva la metamorfosi di suo padre: da genitore a bersaglio, da individuo a simbolo.
L’episodio, avvenuto nell’area di servizio di Lainate, non è semplice cronaca nera. È l’anatomia di un cortocircuito mentale e morale che avvelena il nostro tempo. Mentre la condanna del mondo politico si è levata unanime e la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, ha parlato di un «antisemitismo virale» che si nutre del conflitto mediorientale per legittimarsi, la domanda che resta sospesa nell’aria viziata di quell’autogrill è più profonda: come può un pezzo di stoffa sulla testa di un uomo cancellarne il volto, la storia e l’umanità, trasformandolo all’istante nel rappresentante delle politiche di un governo a migliaia di chilometri di distanza?
Questo meccanismo di de-umanizzazione, che riduce un padre e un figlio a “nemici” a causa della loro identità, è il veleno che agisce su ogni fronte del conflitto israelo-palestinese, e ben oltre. È uno specchio deformante in cui vediamo solo l’ombra che proiettiamo sull’altro. Questo articolo vuole infrangere quello specchio. Partendo dalla violenza cieca sull’asfalto italiano, ci spingeremo nel cuore del conflitto per scoprire che, dietro le etichette monolitiche di “israeliano”, “palestinese” o “ebreo”, esistono individui le cui azioni non solo sfidano, ma demoliscono le generalizzazioni, costringendoci a giudicare le persone per ciò che fanno, non per ciò che sono.
I Costruttori di Ponti sulle Macerie
Dall’odio urlato in un autogrill, spostiamo lo sguardo verso chi, vivendo ogni giorno tra le macerie fisiche ed emotive del conflitto, sceglie ostinatamente la via opposta. Sono uomini e donne che costruiscono ponti dove altri erigono muri. Le loro non sono favole a lieto fine, ma testimonianze del coraggio necessario per rimanere umani.

Tra loro ci sono persone che avrebbero più diritto di odiare. Sono i membri del Parents Circle-Families Forum (PCFF), un movimento che unisce famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso i propri cari nel conflitto. La loro missione non è primariamente politica, ma si fonda su un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: la riconciliazione non è una conseguenza della pace, ma il suo prerequisito.
Le loro storie sono il cuore pulsante di questa rivoluzione. Prendiamo Robi Damelin, madre israeliana il cui figlio David, soldato ma anche convinto attivista per la pace, fu ucciso da un cecchino palestinese. Le sue prime parole, rivolte ai soldati che le portarono la notizia, furono: «Non uccidete nessuno in nome di mio figlio». Il suo percorso è una discesa negli abissi del dolore e una risalita verso un’umanità più profonda, che l’ha portata a rifiutare la vendetta e a cercare il dialogo con la famiglia dell’assassino di suo figlio. «Il nostro potere è il nostro dolore», ama ripetere, trasformando la più grande delle ferite in una fonte di forza.
Accanto a lei c’è Rami Elhanan, israeliano di settima generazione, veterano della guerra dello Yom Kippur. La sua vita fu spezzata quando sua figlia quattordicenne, Smadar, rimase uccisa in un attentato suicida a Gerusalemme. La sua rabbia iniziale si scontrò con una domanda lancinante: «Se uccido qualcuno per vendetta, questo mi riporterà indietro la mia bambina? No».
Questo dolore condiviso abbatte le barriere. Madri palestinesi come Layla Alshekh, che ha perso il suo bambino di sei mesi per l’inalazione di gas lacrimogeni, o Bushra Awad, il cui figlio Mahmoud è stato ucciso dall’esercito, hanno trovato nel dialogo con madri israeliane come Robi non un nemico, ma uno specchio del proprio strazio. Hanno capito che il lutto di una madre non ha nazionalità.
Se il PCFF trasforma il dolore in dialogo, l’organizzazione Combatants for Peace (CfP) incarna la trasformazione più radicale: quella da nemici a partner. È un movimento fondato da ex soldati israeliani ed ex militanti palestinesi che, dopo essersi guardati per anni attraverso il mirino, hanno deciso di deporre le armi per lottare insieme con gli strumenti della non-violenza.
La storia di Sulaiman Khatib è un romanzo di formazione scritto col sangue e la speranza. A quattordici anni accoltellò due soldati israeliani e fu condannato a quindici anni di prigione. Dietro le sbarre, che lui chiama «l’università rivoluzionaria», scoprì un altro modo di combattere, imparando il potere della resistenza non-violenta da Gandhi e Mandela. Oggi la sua convinzione è incrollabile: «Non esiste una soluzione militare… è una fantasia, ma una fantasia molto pericolosa».
Il suo partner in questa lotta è Avner Wishnitzer, ex membro di una delle unità d’élite dell’esercito israeliano. Fu il servizio nei Territori Occupati a provocare in lui una crisi di coscienza, vedendo la profonda dissonanza tra i valori democratici di Israele e la realtà dell’occupazione.
Sarebbe però un errore romantico dipingere questi costruttori di pace come eroi di una favola. La loro scelta di vedere l’umanità nel “nemico” non li vaccina dalla violenza; a volte, li espone a un pericolo maggiore. Molti attivisti per la pace israeliani, che per anni hanno trasportato pazienti palestinesi da Gaza agli ospedali in Israele, sono stati tra le prime vittime del massacro del 7 ottobre, uccisi o rapiti da Hamas.
Questa terribile verità non invalida la loro scelta; al contrario, la rende ancora più potente. Ci ricorda le parole spietate del filosofo Julien Freund: «È il nemico che ti designa. E se vuole che tu sia suo nemico, puoi fargli le migliori offerte di amicizia. Finché vuole che tu sia il nemico, lo sarai». Gli attivisti di PCFF e CfP non sono ingenui. Sono eroi tragici la cui scommessa sull’umanità è fatta con la piena consapevolezza che potrebbe non essere ricambiata, a volte con conseguenze fatali. Ed è proprio questo a rendere la loro scelta non solo coraggiosa, ma necessaria.
La Parola che Brucia e la Frattura Interna
L’idea di un “blocco israeliano” unito dietro le politiche del governo è una finzione. La realtà è quella di una società profondamente fratturata, attraversata da un conflitto interno non meno aspro di quello esterno. Ignorare questa pluralità significa cadere nella stessa trappola mentale dell’aggressore dell’autogrill.

La parola “genocidio” è forse quella che più scuote le fondamenta dell’identità israeliana, legata alla memoria dell’Olocausto. Eppure, anche all’interno di Israele, il dibattito è acceso. Accademici come Raz Segal, studioso dell’Olocausto, non hanno esitato a definire la guerra a Gaza un «caso da manuale di genocidio».
Questo dissenso non è confinato alle aule universitarie. Organizzazioni come B’Tselem, il centro israeliano per i diritti umani nei Territori Occupati, documentano da decenni le violazioni per combattere il «fenomeno della negazione» all’interno della società israeliana. Le loro posizioni sono radicali e controverse: sono arrivati a definire il sistema di controllo sui palestinesi un «regime di apartheid», scatenando feroci accuse ma dimostrando l’esistenza di una critica interna strutturata.
Forse ancora più dirompente è la voce di Breaking the Silence, un’organizzazione di veterani dell’esercito israeliano (IDF). Raccogliendo testimonianze anonime di soldati, dipingono un quadro fatto di ordini discutibili e di un’umiliazione dei civili diventata prassi. «Entri in una casa», racconta un soldato, «e vedi lo sguardo furioso di questo bambino… Pensi che non c’è dubbio che stai solo aggiungendo legna al fuoco già acceso».
Queste non sono le parole di un nemico esterno, ma la confessione di chi ha indossato l’uniforme. Mettere chi critica e chi è criticato nello stesso calderone è l’errore fondamentale, lo stesso che trasforma un turista con la kippah in un “assassino”.
La Radice Dimenticata della Fratellanza
Le parole che usiamo modellano la nostra realtà. A volte, dimentichiamo la loro origine, perdendo una chiave per comprendere il presente. È il caso della parola “semita”. Il termine nacque alla fine del XVIII secolo per classificare un gruppo di lingue imparentate: l’ebraico, l’arabo, l’aramaico e altre ancora. Il nome fu preso da Sem, figlio di Noè, considerato il progenitore di coloro che parlavano quelle lingue.

L’implicazione di questo fatto, tanto semplice quanto trascurato, è dirompente. Secondo la radice stessa della parola, sia gli ebrei sia gli arabi sono popoli semiti: rami dello stesso, antichissimo albero. Una fratellanza linguistica e ancestrale che la storia ha trasformato in una delle più feroci inimicizie.
Armati di questa consapevolezza, possiamo affrontare il paradosso più doloroso: quello contenuto nella parola “antisemitismo”. Il termine fu coniato nel 1879 dal giornalista tedesco Wilhelm Marr per dare una veste pseudo-scientifica e razziale al secolare odio contro gli ebrei. L’antisemitismo nasce quindi come parola-arma, con un bersaglio unico e storicamente definito: il popolo ebraico.
Riconoscere l’origine storica del termine è un dovere. Ma è sufficiente? Se l’odio è “anti-semita”, ovvero contro i figli di Sem, come possiamo, con onestà intellettuale e morale, limitarne la condanna a un solo ramo di quella famiglia, ignorando la violenza rivolta all’altro?
Qui si svela l’ipocrisia universale dell’odio. Il veleno che de-umanizza è chimicamente lo stesso. Se seguiamo una logica non solo storica ma etica, le conclusioni sono scomode per tutti.
L’italiano che in un autogrill aggredisce un uomo per la sua kippah è antisemita.
Ma chi, in nome di una qualsiasi causa, de-umanizza un arabo, riducendolo a un’etichetta, compie un atto che nella sua essenza è “anti-semita”: un odio fratricida.
E, portando il ragionamento alla sua conclusione più radicale, anche un ebreo che nega l’umanità di un palestinese compie un atto “anti-semita”, un atto contro un suo stesso “fratello”, tradendo la radice comune in nome di un odio che si crede giusto.
Estendere il significato morale di “antisemitismo” non è un gioco di parole, ma un atto filosofico. Significa riprogrammare il termine per condannare una tipologia di odio: l’odio che nega una parentela, che trasforma il fratello in un mostro.
Scegliere di non Essere Nemici
Torniamo per un’ultima volta alla domanda iniziale: come si spezza il ciclo dell’odio?
La risposta è nelle storie che abbiamo attraversato. È nella scelta di Robi Damelin di non volere vendetta, nella trasformazione di Sulaiman Khatib, nella crisi di coscienza dei soldati di Breaking the Silence. Loro non sono eroi irraggiungibili. Sono persone che, di fronte a un dolore inimmaginabile, hanno compiuto la scelta più difficile e più umana: la scelta di non essere nemici. Hanno scelto di giudicare e di essere giudicati per le proprie azioni, non per l’uniforme, la lingua o il lutto.

La frase di Julien Freund risuona come un monito: «È il nemico che ti designa». Ma le vite di questi uomini e donne ci mostrano che esiste una possibilità di resistenza. Ogni giorno, con le loro azioni, si rifiutano di accettare quella designazione. Rifiutano di essere l’ombra che il nemico proietta su di loro.
L’invito che ci arriva da quelle terre martoriate, e da quell’asfalto italiano, è di fare lo stesso: rifiutare le etichette facili, cercare la complessità dietro ogni titolo di giornale, ascoltare le storie individuali prima di emettere sentenze collettive. E, soprattutto, sforzarsi di vedere, sempre e comunque, l’uomo, non la sua ombra.