Quella sera, Valerio ignorò la cena comunitaria. Appena uscito dalle mura vaticane, sentì il bisogno fisico di allontanarsi, di mescolarsi al frastuono di una Roma indifferente ai destini della legislazione italiana. Guidò fino a un piccolo appartamento nel quartiere Prati, dove lo aprì un uomo anziano, curvo, ma con lo sguardo ancora tagliente come un frammento di ossidiana. Era il professor Carini, suo docente di patristica alla Gregoriana, ora in pensione e consumato da un cancro ai polmoni. Non era un “caso” da manuale di bioetica. Era un uomo che ansimava dopo ogni frase e che, tra un colpo di tosse e l’altro, cercava di spiegare al suo ex allievo la differenza tra dolore e sofferenza.
L’appartamento odorava di libri e di malattia, di polvere e di disinfettante. Accanto a una pila di volumi sulla teologia dei Padri del Deserto, c’era una bombola d’ossigeno. “Il dolore fisico, Valerio, è una cosa”, disse Carini con un filo di voce, indicando l’inalatore. “Le cure palliative aiutano, sì. La legge su quelle l’hanno fatta, e meno male. Ma la sofferenza… la sofferenza è un’altra faccenda”.
Valerio ascoltava, e le parole del messaggio di Leone XIV gli rimbombavano in testa: cercare di attirare l’attenzione delle persone su come il mistero della sofferenza… può essere trasformato per grazia in un’esperienza della presenza del Signore.
“La sofferenza,” continuò il professore, “è l’umiliazione di non poterti più lavare da solo. È vedere tua moglie, a ottant’anni, che deve sollevarti come un fantoccio. È sentirti un guscio vuoto, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, con una mente che ancora funziona e urla la sua vergogna”. Si fermò, cercando aria. “Questa non è la presenza del Signore, Valerio. Questo è l’inferno”.
Nella mente di Valerio, un’altra frase prese forma, una di quelle limate per i dossier: La sofferenza, ribadiscono in Curia, non è un disvalore da eliminare. Glaciale. Assurda.
“Parlano di dignità”, riprese Carini con un sorriso amaro. “Ma la dignità di cui parlano loro è un principio teologico, è la sacralità della vita biologica. La mia dignità, quella umana, è nella mia coscienza, nella mia capacità di riconoscermi. È la capacità di decidere, sancita anche dalla vostra Consulta, quando la sofferenza diventa intollerabile. Loro cosa ne sanno di intollerabile?”.
Valerio non rispose. Pensava al suo dossier, alle strategie, alla triangolazione con le forze politiche per arrivare a una legge che ribadisse un divieto, pur concedendo un’attenuante. Un capolavoro di mediazione politica che, visto da quella poltrona consumata, appariva come una sofisticata forma di crudeltà.
“Cristo sulla croce ha gridato ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’. Non ha tenuto un seminario sul senso del dolore. Ha gridato la sua sofferenza di uomo. La nostra missione non dovrebbe essere quella di spiegare la sofferenza, ma di stare con chi grida. E a volte, stare con chi grida significa accettare di non poter fare più nulla, se non rispettare la sua ultima, estrema, richiesta di pace”.
Quando Valerio lasciò l’appartamento, la notte romana era scesa. Camminava senza meta. Ogni passo era pesante. Non era più solo un ingranaggio di un meccanismo che non condivideva. Era un uomo che aveva guardato negli occhi la sofferenza che la sua istituzione pretendeva di normare, e si era sentito un impostore. La “civiltà della compassione” di cui parlava il Papa gli sembrava ora lo slogan più vuoto e lontano che avesse mai sentito.
