Prima parte: Il sapore della cenere
La coppa d’argento pesava più di quanto Marco avesse immaginato. Sul palco, sotto i riflettori che lo facevano sudare – un sudore acido che gli colava nella camicia buona, quella stirata male la sera prima – stringeva quel trofeo come si stringe qualcosa che non si è certi di meritare. Aveva vinto. Le sue ceramiche erano state giudicate le migliori della città.
Ma mentre il pubblico applaudiva, Marco sentiva solo il vuoto. Come quando mordi un frutto bellissimo e scopri che dentro è di cartone. L’applauso aveva il suono della pioggia su un tetto di lamiera – rumore senza senso.
Tornò alla bottega all’alba, come sempre. L’odore lo accolse ancora prima di aprire la porta: argilla umida, muschio, qualcosa di antico come il fondo di un pozzo. Le mani nell’argilla prima che il sole nascesse, il tornio che girava con quel ronzio ipnotico, eterno. La terra fredda che diventava tiepida sotto le sue dita, docile, paziente.
C’era qualcosa di monastico in quel gesto ripetuto mille volte: centro, pressione, sollevamento, carezza. Le unghie sempre nere di terra secca. La schiena che doleva alle cinque del pomeriggio. Il sapore metallico della polvere di smalto sulla lingua quando respirava troppo vicino ai barattoli aperti.
Marco non si accorgeva che quella routine lo stava seppellendo vivo. Giorno dopo giorno, la stessa sequenza. Proteggeva la sua arte come si protegge una fiamma dal vento, ma finì per soffocarla sotto una campana di vetro.
Seconda parte: Il coltello nel cuore
Fu Luca a dirglielo. Il socio. L’amico. Quello con cui aveva diviso pane e sogni per dodici anni. Lo disse in bottega, con il forno ancora caldo che ticchettava raffreddandosi.
“Ho venduto i progetti alla Ceramiche Industriali.”
Cinque parole. L’aria nella stanza cambiò consistenza, divenne densa come olio. Marco sentì il sapore del ferro in bocca – o forse si era morso la lingua senza accorgersene.
Qualcosa si spezzò dentro, letteralmente. Come quando cade un vaso prezioso e il suono della rottura continua a riverberare nell’aria anche dopo che i pezzi sono fermi sul pavimento. Non era solo il denaro – quello si poteva recuperare. Era la fiducia. Era il significato.
Luca uscì lasciando odore di dopobarba e tradimento. Marco rimase da solo. Le mani gli tremavano. Prese un piatto appena smaltato – uno dei suoi migliori – e lo scagliò contro il muro. Il rumore fu soddisfacente, osceno. Poi un altro. E un altro ancora. Finché il pavimento non fu coperto di cocci che scricchiolavano sotto i suoi piedi come ossa.

La notte dopo non dormì. Fissava il soffitto e sentiva l’odore del proprio sudore – aspro, animale, spaventato.
La bottega chiuse in tre mesi. Marco guardò per l’ultima volta il tornio immobile, coperto di polvere come una lapide, e pensò che forse anche lui era morto un po’.
Terza parte: Il pellegrinaggio
Comprò un biglietto aereo senza una meta precisa. Dove andare quando ti senti un vaso rotto?

Il Giappone lo accolse con pioggia sottile che sapeva di sale e alghe. In un villaggio vicino a Kyoto, un anziano maestro gli mostrò l’arte di riparare le ceramiche con l’oro. Le sue mani erano nodose come radici, profumavano di cera d’api e tabacco. “La rottura fa parte della storia dell’oggetto,” disse. Il laboratorio odorava di lacca e resina, un profumo così intenso che Marco sentì gli occhi pizzicare.
In Marocco, nella medina di Fez, l’aria vibrava di spezie e sterco di mulo. Imparò che l’argilla rossa portava in sé il colore del deserto. Una donna berbera dalle mani tatuate di henné gli fece toccare una ciotola ancora fresca. “Senti,” disse. Era tiepida, quasi viva. “La terra ricorda.”
In Messico, a Oaxaca, il caldo era umido, appiccicoso. Le ceramiche nere luccicavano come insetti. “È il fumo,” gli spiegò un artigiano dai capelli bianchi che masticava foglie di coca. Per ventiquattro ore il forno bruciava legno di pino. L’odore era dolce e amaro insieme, come caramello bruciato. “La ceramica respira. Diventa nera respirando.”
Marco viaggiò per due anni. Toccò terre di mille colori – rossa come mattoni, bianca come ossa, nera come carbone bagnato. Mangiò cibi che non aveva mai assaggiato. Dormì in letti che odoravano di lavanda, di polvere, di sudore di estranei.
Ma più imparava, più sentiva crescere dentro di sé un vuoto che nessuna tecnica poteva riempire.
Una notte, nel deserto del Sahara, sotto stelle così dense che sembravano premere verso il basso, Marco capì.
Quarta parte: Il grande abbandono

La sabbia ancora calda del giorno gli bruciava attraverso i pantaloni. L’aria notturna del deserto aveva un odore netto, pulito – niente, solo spazio. Aprì lo zaino. Dentro c’erano tutti i suoi nuovi tesori: certificati, foto, ritagli di giornale, campioni di argille rare raccolte in sacchetti di plastica che scricchiolavano al tatto.
Li guardò uno a uno. E capì.
Aveva passato due anni a collezionare pezzi per riempire il buco che Luca aveva scavato. Ma il buco era ancora lì. Più grande. Perché non puoi riempire una crepa nell’anima con certificati e riconoscimenti. È come cercare di saziare la fame mangiando fotografie di cibo.
All’alba – quando il deserto si tinge di rosa e l’aria sa di sabbia e eternità – Marco lasciò quasi tutto in un rifugio berbero. Un ragazzo lo guardò con occhi curiosi mentre svuotava lo zaino. Tenne solo un quaderno pieno di schizzi e le mani. Solo quelle.
Tornò in Italia con uno zaino mezzo vuoto e un cuore stranamente leggero. Come quando ti togli un vestito troppo stretto e finalmente torni a respirare.
Quinta parte: La ruota gira
L’edificio della vecchia bottega era cambiato. L’odore no – ancora argilla, ancora umido, ancora casa. Ma dove una volta c’erano i forni, ora c’era un cartello scritto male, a mano: “Centro Culturale del Quartiere – Cerchiamo artigiani.”
Marco lesse il cartello tre volte. Poi entrò.
Lo spazio era diverso. Qualcuno aveva imbiancato le pareti – puzzavano ancora di vernice fresca. C’erano sedie spaiate, un tavolo lungo graffiato, finestre sporche che lasciavano entrare una luce lattiginosa.
Parlò con una donna sulla cinquantina, capelli grigi raccolti male, mani da operaia. “Non abbiamo soldi,” disse subito. “Possiamo offrire lo spazio, i materiali base. Tu porti quello che sai.” Lo guardò dritta negli occhi. “Ma la gente del quartiere… hanno bisogno di imparare cose vere. Cose fatte con le mani. Capisci?”
Marco annuì. Capiva.
Sesto: Il primo giorno (e l’ultimo)
Sono le sette del mattino. Marco sistema i pezzi di argilla sul tavolo lungo – ventiquattro blocchi, uno per ogni persona che ha chiamato. L’argilla è fredda, dura, ha quel colore grigio-marrone di cosa morta. Sul tavolo ci sono anche scodelle d’acqua che riflettono la luce sporca delle finestre.
Arrivano alle otto. Una ragazzina con l’apparecchio ai denti. Un uomo anziano che puzza di vino. Una donna incinta. Un ragazzo con tatuaggi che gli coprono le braccia. Una signora elegante che sembra essersi persa. Altri ancora.
Si siedono in silenzio.
Marco prende un pezzo di argilla. Non dice niente. Affonda le mani, le bagna, inizia a lavorare. Il rumore dell’argilla che si apre è osceno, carnale – uno schiocco bagnato come di baci.
Gli altri lo guardano. Poi, uno alla volta, prendono la loro argilla.
La ragazzina è impacciata. L’anziano ha mani che tremano. La donna incinta lavora con una ferocia che sorprende Marco – preme, schiaccia, come se volesse uccidere quella terra.
Per due ore lavorano in silenzio. L’odore dell’argilla riempie la stanza – muschio, terra bagnata, tomba aperta. Qualcuno inizia a sudare. Le mani di tutti diventano nere.
Marco guarda quello che stanno creando. Niente è perfetto. Niente è bello nel modo convenzionale. Sono forme storte, irregolari, oneste.
La donna incinta si ferma. Guarda la sua ciotola – o quello che dovrebbe essere una ciotola ma sembra più un urlo solidificato. “Fa schifo,” dice. Non piange, ma la sua voce trema.
Marco si avvicina. Tocca la ciotola. È calda per il calore delle sue mani. Ha crepe, irregolarità, impronte digitali ben visibili.
“È tua,” dice semplicemente.
La donna lo guarda. Nei suoi occhi c’è qualcosa che Marco riconosce – la stessa cosa che ha visto nello specchio del bagno dell’aeroporto quando è tornato dal Sahara. Non è gratitudine. Non è gioia. È riconoscimento.
Fine del laboratorio. La gente se ne va. Alcune ciotole restano sul tavolo, altre vengono portate via con cura, avvolte in stracci.
Marco rimane solo. Guarda le sue mani – nere di argilla, tagliate in due punti, gonfie. Sente l’odore della terra sotto le unghie. Fuori piove. L’acqua sulle finestre sporche crea ombre che si muovono sulle pareti come fantasmi.
Non sa se questo è un nuovo inizio o solo un altro modo di finire.
Prende un pezzo di argilla rimasto. Lo annusa – odore di cave, di profondità. Lo stringe. Freddo. Morto. Aspetta.
Pensa a Luca. Al tradimento. Al Giappone, al Marocco, al Messico. Ai maestri che ha incontrato. A tutto quello che ha lasciato nel deserto.
Poi pensa alla donna incinta che ha detto “fa schifo” con quella voce rotta. Al vecchio che tremava. Alla ragazzina che si mordeva il labbro mentre premeva troppo forte.
E capisce qualcosa che non sa come dire a parole.
L’argilla nelle sue mani inizia a scaldarsi.
Marco chiude gli occhi.

Quando li riapre, fuori ha smesso di piovere. La luce è cambiata – più chiara, più cruda. Sul tavolo ci sono ventitré ciotole imperfette e una manciata di terra che aspetta.
Inizia a lavorare.
Non perché ha trovato il senso. Non perché ha capito tutto. Non perché la ferita si è chiusa.
Ma perché le sue mani sanno cosa fare, anche quando la sua testa non sa più niente.
E forse – forse – è abbastanza.
Per oggi.
