C’è un momento, ogni anno, in cui l’Italia sembra improvvisamente dimenticare chi è. Arriva ottobre, le prime zucche compaiono sui davanzali, e puntuale come le foglie che cadono scoppia la polemica. Halloween. La parola stessa viene pronunciata come un’eresia, un tradimento, un’invasione culturale che minaccia l’identità cristiana del nostro Paese. Eppure, in questa fretta di condannare, in questa ansia di respingere il “nemico americano”, stiamo cacciando via qualcosa che è nostro da sempre, qualcosa che appartiene alla terra che calpestiamo, alle storie che i nostri nonni raccontavano nelle sere d’autunno, quando l’aria si faceva più sottile e i confini tra i mondi sembravano farsi porosi.
Immaginate una sera di fine ottobre a Serra San Bruno, in Calabria. L’aria profuma di castagne e di foglie bagnate. Dalle case di pietra esce un chiarore incerto, tremolante. Per i vicoli del paese camminano piccole figure, bambini che portano in mano una cosa strana e meravigliosa: una zucca svuotata, intagliata a forma di teschio, con una candela che danza nel suo ventre. Bussano alle porte. “Mi pagate il coccalu?” chiedono con quella serietà solenne che hanno i bambini quando recitano un copione antico. Il “Coccalu di muortu”. Il teschio dei morti.
Non è uno scenario da film americano. È la Calabria di sempre, la Calabria di secoli fa, quella che ha dato i natali all’antropologo Luigi Lombardi Satriani, che dedicò la sua vita a raccontarci questa verità scomoda: Halloween non è arrivato dall’America. È tornato. Come un figlio emigrato che dopo decenni varca di nuovo la soglia della casa paterna, trasformato dal viaggio ma ancora profondamente radicato nella terra che lo ha generato.
L’Alfabeto Segreto della Morte
C’è una domanda che ogni bambino prima o poi fa, e che ogni genitore teme: “Dove vanno le persone quando muoiono?” È una di quelle domande che spacca il tempo, che ti costringe a guardare nell’abisso del mistero e a cercare parole che non esistono. Possiamo mentire, dolcificando tutto con immagini di angeli e nuvole. Possiamo eludere, rimandando il discorso a quando “saranno più grandi”. Oppure possiamo fare quello che i nostri antenati hanno sempre fatto: possiamo insegnare ai bambini a danzare con il mistero.
Perché è questo che facevano, quelle sere d’autunno in Calabria. Quando i bambini intagliavano le zucche e le trasformavano in teschi luminosi, non stavano giocando con la morte. Stavano imparando a guardarla in faccia. Stavano prendendo ciò che più spaventa – il volto stesso della fine, l’ossatura nuda di ciò che resta quando la vita se ne va – e lo stavano trasformando in qualcosa che potevano tenere tra le mani. Un teschio che non fa paura perché è fatto di buccia vegetale e luce di candela, perché è stato creato da loro stessi, perché racconta che la morte può essere affrontata, nominata, persino illuminata.

L’antropologo Lombardi Satriani lo spiegava con parole che suonano come poesia: si trattava di rifiutare che la morte introducesse una separazione definitiva. Non negare la morte – quella sarebbe vigliaccheria. Ma rifiutare che fosse la fine di tutto, l’ultima parola, il punto fermo che cancella ogni virgola di relazione. Nelle case calabresi, quando i bambini bussavano con i loro “coccali”, stavano tessendo un ponte. Un ponte fragile come un filo di ragnatela, luminoso come una candela nella notte, ma un ponte comunque. Un ponte tra questo mondo e l’altro, tra chi respira ancora e chi ha smesso, tra il ricordo e la presenza.
Non è forse questo il cuore di ogni spiritualità? Non è questo che cerchiamo quando preghiamo per i nostri morti, quando portiamo fiori alle tombe, quando accendiamo lumini la sera del due novembre? Stiamo dicendo: non vi abbiamo dimenticati. Siete ancora parte della nostra storia. Il filo che ci lega non si è spezzato, si è solo fatto invisibile, e noi abbiamo bisogno di rituali per renderlo di nuovo percepibile, tangibile, reale.
Per un bambino, questo ha un valore che non può essere misurato. Crescere sapendo che la morte non è tabù, non è qualcosa da nascondere sotto il tappeto dell’ipocrisia adulta, ma è parte del grande cerchio della vita. Crescere imparando che chi amiamo non scompare davvero, ma continua a vivere nel nostro cuore, nella nostra memoria, nei gesti che ci hanno insegnato. Crescere con la certezza che c’è un modo per mantenere vivo questo legame, attraverso il ricordo, attraverso la narrazione, attraverso rituali che fanno di ogni fine ottobre una finestra aperta verso chi ci ha preceduto nel grande mistero.
Le Maschere che Insegnano a Vivere
C’è una magia antica nell’atto di indossare una maschera. Non a caso tutte le culture del mondo, da sempre, hanno i loro rituali di travestimento. Perché quando un bambino si mette addosso il costume da fantasma, da strega, da mostro, sta facendo qualcosa di profondamente trasformativo: sta provando a essere altro da sé, sta esplorando identità diverse, sta giocando con i confini dell’io. E in questo gioco apparentemente innocuo si nasconde una delle più grandi lezioni educative che possiamo offrire.
Pensate a cosa significa per un bambino timido diventare, per una sera, una strega potente. Pensate a cosa significa per chi ha paura del buio trasformarsi in un fantasma che nel buio abita. È lo stesso meccanismo delle fiabe che Bruno Bettelheim ha magistralmente analizzato: i bambini hanno bisogno di confrontarsi con le loro paure, ma in un contesto sicuro, controllato, dove sanno che alla fine potranno togliersi la maschera e tornare a essere se stessi. Halloween offre proprio questo: una palestra emotiva dove esercitare il coraggio, dove imparare che le cose che ci spaventano possono essere affrontate, addomesticate, persino trasformate in gioco.
E poi c’è l’arte del creare. Quante ore passano i bambini a progettare il loro costume, a decorare zucche, a inventare storie? In un’epoca in cui tutto è già pronto, già confezionato, già digerito dal mercato del consumo, c’è qualcosa di rivoluzionario nel dire a un bambino: “Prendi questa zucca vuota e trasformala in qualcosa che non esiste ancora”. È creatività pura, è immaginazione che diventa materia, è il potere prometeico di dare forma al mondo.
Quando poi quella sera i bambini escono per il quartiere, mascherati e eccitati, stanno vivendo anche un’esperienza di comunità che oggi è sempre più rara. Bussano alle porte dei vicini, imparano a dire “grazie”, scoprono che il signore del terzo piano in realtà è gentile e che la signora dell’angolo fa dei biscotti meravigliosi. In una società dove i condomini sono celle di solitudine e i quartieri sono dormitori senza anima, Halloween diventa un’occasione per tessere di nuovo quei fili di relazione che tengono insieme il tessuto sociale. È un rituale di appartenenza, un modo per dire: “Siamo qui, siamo vicini, siamo comunità”.
E c’è anche la lezione della generosità, in questo scambio rituale di dolcetti. Non è commercio – nessuno paga nulla. È dono puro: dai perché l’altro è venuto a bussare alla tua porta, perché è un bambino, perché c’è qualcosa nell’aria che ci ricorda che la vita è breve e che condividere rende più ricchi. Nelle tradizioni calabresi, offrire qualcosa ai bambini con i loro “coccali” era un modo di fare un’offerta alle anime dei morti. Era economia sacra, scambio tra i mondi, reciprocità cosmica. Oggi possiamo non crederci più, ma il gesto rimane: dare per il piacere di dare, ricevere con gratitudine, riconoscere che siamo tutti legati da debiti di gentilezza che non si possono mai saldare completamente.
Il Paradosso di Chi Dimentica il Proprio Nome
C’è qualcosa di stranamente ironico in questa crociata contro Halloween che alcuni cattolici italiani hanno intrapreso. Perché se solo si fermassero un momento, se solo guardassero alla storia con occhi meno accecati dall’ansia identitaria, scoprirebbero che stanno combattendo contro se stessi.
Halloween – parola che suona così straniera, così americana – non è altro che la contrazione di “All Hallows Eve”, la vigilia di Tutti i Santi. È letteralmente la notte prima della festa più importante del calendario liturgico dopo le grandi solennità cristiane. È la soglia, il vestibolo, l’anticamera della celebrazione di quella immensa comunità di spiriti che chiamiamo comunione dei santi. Come si può demonizzare la vigilia di una delle feste più cristiane che esistano?
La verità è che la Chiesa, quando era saggia e non aveva paura della vita, ha sempre saputo fare quello che oggi alcuni sembrano aver dimenticato: ha sempre saputo battezzare le culture, abbracciare le tradizioni popolari, trasformare ciò che esisteva prima in qualcosa di nuovo senza perderne l’anima. Il Natale stesso è nato così, sovrapponendosi a festività solstiziali che celebravano il ritorno della luce. La Pasqua ha raccolto in sé antiche feste primaverili di rinascita. E Halloween, la commemorazione dei defunti, si è inserita in quel sottile momento dell’anno in cui la natura stessa sembra morire, in cui le foglie cadono e la terra si prepara al sonno invernale.
Quando i nostri antenati calabresi intagliavano le zucche a forma di teschio, non stavano facendo qualcosa di anticristiano. Stavano facendo teologia con le mani, stavano incarnando il mistero della morte e della resurrezione in un oggetto tangibile che i bambini potessero capire. Stavano dicendo, senza bisogno di complessi trattati dottrinali: “La morte esiste, ma può essere illuminata. Il teschio è vuoto, ma noi ci mettiamo dentro una luce. E quella luce continua a brillare”.
È la stessa intuizione che attraversa tutto il cristianesimo delle origini, quello più vitale e meno impaurito: l’idea che nulla di umano è estraneo al sacro, che Dio si incarna nelle culture e parla tutte le lingue, che la fede non è un museo di purezza immacolata ma un fiume che scorre attraverso i territori della vita umana, raccogliendo affluenti, cambiando corso, arricchendosi di ogni terra che attraversa.
I santi stessi – quelli che celebriamo il primo novembre – erano persone che hanno vissuto nel loro tempo, nella loro cultura, con le loro tradizioni. Non erano alieni calati da un altro pianeta di perfezione disincarnata. Erano calabresi e siciliani, romani e milanesi, ognuno con il proprio dialetto di santità. Celebrare Halloween alla vigilia della loro festa significa ricordarci che siamo chiamati anche noi a diventare santi, qui, ora, in mezzo alle zucche e ai costumi, in mezzo alla vita così com’è, con tutta la sua mescolanza di sacro e profano, di gioco e preghiera, di luce e ombra.
Come Restituire l’Anima a Halloween
Allora cosa facciamo? Proibiamo ai nostri figli di festeggiare Halloween per proteggerli da un’invasione culturale che in realtà è un ritorno a casa? Oppure ci arrendiamo alla versione più commerciale e vuota, quella fatta solo di supermercati che vendono costumi cinesi e di dentisti che si fregano le mani pensando a tutto quello zucchero?
No. C’è una terza via, quella che i nostri antenati conoscevano bene: l’arte di prendere ciò che esiste e dargli un’anima.

Cominciate dalla vostra terra. Ogni regione italiana ha le sue tradizioni legate alla commemorazione dei defunti. In Sicilia ci sono “i pupi ri zuccaru”, bambole di zucchero che i morti portano ai bambini. In Sardegna si preparano “is animeddas”, dolci per le anime. In Friuli c’è la “notte delle lumere”, quando si accendono lumini per guidare i morti verso casa. Cercate, chiedete agli anziani del vostro paese, frugatenei libri di antropologia locale. Scoprirete che Halloween non ha bisogno di essere importato: è già qui, si è sempre chiamato con nomi diversi, ma è la stessa memoria, lo stesso ponte verso chi non c’è più.

E quando i vostri bambini intagliano le zucche, sedetevi con loro. Raccontate delle persone che hanno amato e che ora non ci sono più. Il bisnonno che faceva il falegname e aveva mani grosse come pale. La zia che rideva sempre e cucinava il ragù più buono del mondo. Quel compagno di classe che è morto troppo presto e che nessuno dovrebbe dimenticare. Fate in modo che ogni zucca intagliata sia un piccolo altare della memoria, un modo tangibile di dire: “Vi ricordiamo. Siete ancora con noi”.
La sera di Halloween, prima di uscire per il giro del quartiere, accendete una candela insieme. Fate un momento di silenzio. Se siete credenti, recitate una preghiera per i defunti. Se non lo siete, semplicemente state insieme nel ricordo. Lasciate che i bambini capiscano che quello che stanno per fare – travestirsi, andare in giro, chiedere dolcetti – è parte di qualcosa di più grande. È un rituale che ha a che fare con la vita e con la morte, con la memoria e con l’amore che non muore.
E il giorno dopo, il primo novembre, portateli al cimitero. Portate fiori, pulite le lapidi, raccontate altre storie. Andate a messa se fa parte della vostra tradizione, e spiegateloro chi sono questi “santi” che si celebrano: persone normali che hanno vissuto in modo straordinario, che hanno lasciato una traccia di luce dietro di sé. Il due novembre tornate al cimitero, o semplicemente fate un altro momento di memoria in casa. Create una continuità tra Halloween, Ognissanti e la Commemorazione dei Defunti. Sono tre giorni che appartengono insieme, tre stazioni di uno stesso pellegrinaggio.
E resistete, per favore, alla tentazione del consumo compulsivo. Non serve comprare costumi costosi che verranno usati una volta e poi gettati. Prendete vecchie lenzuola, cartoni, stoffa di recupero. Lasciate che i bambini creino, che si sporchino le mani, che trasformino oggetti comuni in magia. È in questa creatività artigianale che si nasconde il vero valore educativo, non nell’acquisto passivo di prodotti già pronti.
Se avete voce nelle comunità educative, proponete di fare Halloween in modo diverso. Organizzate feste che siano insieme ludiche e spirituali. Raccontate le vite dei santi in modo avventuroso, non noioso. Fate giochi a tema con la morte e la resurrezione – non è mancanza di rispetto, è teologia fatta con il corpo, con il gioco, con quella serietà gioiosa che i bambini sanno avere. Intagliate zucche insieme e mentre lo fate parlate del mistero della vita. Create un Halloween che sia pienamente italiano e pienamente cristiano, perché in fondo sono sempre stati la stessa cosa.
Il Ritorno delle Zucche
Alla fine, questa storia di Halloween è la storia di un esilio e di un ritorno. È la storia di persone che sono partite dall’Italia portando con sé, nelle valigie di cartone legate con lo spago, non solo vestiti e fotografie ma anche memoria, tradizione, il peso invisibile delle zucche intagliate nelle sere d’autunno. Sono arrivate in America, hanno trovato altri esuli, altre memorie, altri modi di parlare con i morti. E tutto si è mescolato, contaminato, trasformato. La tradizione è diventata altra, si è vestita con nuovi colori, ha assunto forme diverse.
E ora torna, come tornano i figli che hanno vissuto lontano. Torna diversa, certo. Parla con accento straniero, si è vestita all’americana, ha imparato altre lingue. Ma sotto, nel profondo, è ancora la stessa cosa: è il bisogno umano di non dimenticare, di mantenere vivo un dialogo con chi ci ha preceduto, di insegnare ai bambini che la morte non è la fine della relazione ma una sua trasformazione.
Le polemiche contro Halloween rivelano qualcosa di più profondo di una semplice diffidenza culturale. Rivelano una paura della contaminazione, un’ansia di purezza che è profondamente estranea allo spirito del cristianesimo autentico. Perché il cristianesimo è nato dalla contaminazione: un Dio ebreo che parla greco e si incarna in un corpo umano, una religione orientale che conquista Roma diventando universale, una fede che ha sempre saputo dire “sì” alla vita in tutte le sue forme, mescolanze, imperfezioni.
Quando guardiamo i nostri bambini travestiti la sera del 31 ottobre, con le loro zucche luminose e i loro costumi improvvisati, possiamo scegliere di vedere un’invasione culturale, l’ennesima americanizzazione, la perdita della nostra identità. Oppure possiamo scegliere di vedere quello che veramente c’è: bambini che stanno imparando a vivere, che stanno facendo esperienza di comunità, che stanno toccando con mano il grande mistero della vita e della morte, che stanno tessendo – con fili di zucca e stoffa, con candele e dolcetti – quello stesso ponte che i loro bisnonni costruivano nei vicoli di Serra San Bruno.
Non serve difendere i bambini da Halloween. Serve difendere Halloween dal vuoto del consumismo, dalla banalità del commercio, dall’oblio della sua profondità. Serve restituirle l’anima che ha sempre avuto, l’anima italiana, contadina, spirituale, quella che sa che la morte fa parte della vita e che i morti fanno parte dei vivi, quella che non ha paura di nominare ciò che spaventa perché sa che nominare è il primo passo per trasformare.
Lombardi Satriani, quell’antropologo calabrese che dedicò la vita a studiare come i popoli parlano con i loro morti, aveva capito tutto. Aveva capito che dietro ogni zucca intagliata c’è una domanda antica: come facciamo a non perdere completamente chi amiamo? E aveva capito che la risposta non sta nel proibire le feste o nel demonizzare le tradizioni, ma nel recuperarne il senso più profondo, nel restituire ai rituali la loro dimensione sacra.
Questa è la sfida che abbiamo davanti. Non combattere Halloween, ma battezzarlo di nuovo. Non respingerlo, ma riconoscerlo come nostro. Non proteggere i bambini da esso, ma usarlo per insegnare loro le cose più importanti: che la vita è preziosa proprio perché finisce, che l’amore è più forte della morte, che siamo parte di una catena di generazioni che ci precede e ci seguirà, e che abbiamo il dovere sacro di non dimenticare, di mantenere viva la memoria, di continuare a tessere quel ponte di luce tra i mondi che i nostri antenati hanno sempre costruito, una zucca intagliata alla volta.
Allora lasciamo che i bambini festeggino Halloween. Ma facciamolo sapendo chi siamo, da dove veniamo, cosa significa veramente quella zucca illuminata che brillerà sul loro davanzale. Facciamolo come un atto di memoria, di fedeltà, di amore. Facciamolo come i calabresi di un tempo: non per evocare la paura, ma per illuminare la morte. Non per dimenticare i defunti, ma per continuare a parlargli. Non per essere moderni o americani, ma per essere profondamente, radicalmente, luminosamente umani.
“Il fatto che la comunicazione con le persone a noi care, una volta defunte, sia definitivamente conclusa… viene in qualche maniera interrotto da eventi rituali che costituiscono anche canali possibili di comunicazione con i defunti.”
Luigi Lombardi Satriani, antropologo calabrese, custode della memoria

Finalmente un articolo chiaro ed esaustivo su questa famigerata — e tanto temuta? — festa di Halloween!
Approfitto per condividere con voi un aneddoto: l’anno scorso, proprio in questo periodo, sono andato con mia moglie e un’altra coppia di amici a fare visita alla mia città natale (Hamilton, in Canada), proprio per assaporare e ricordare i miei primi anni vissuti in quel luogo e, volutamente, la festa di Halloween.
Ovviamente, la sera del 31 ottobre siamo usciti in giro a gridare “Dolcetto o scherzetto!” ( ovviamente e rigorosamente in inglese “Trick or treat!”), bussando alle porte dei vicini di casa degli amici che ci ospitavano. E sorpresa…molti dei vicini erano nostri connazionali!!!!!
Leggendo tra le righe dell’articolo di Tommaso — che ringrazio di cuore per la dedica — mi sono ritrovato in una frase in particolare:
“Siamo qui, siamo vicini, siamo comunità.”
E non posso che dire… mi ha davvero scaldato il cuore!