
Cronaca di una guerra civile per errore
Erding, Baviera. La guerra è arrivata in Germania. Senza preavviso, senza dichiarazioni, senza mandare nemmeno una cartolina di cortesia. È arrivata di mercoledì pomeriggio, vestita da se stessa, armata fino ai denti, pronta a difendere la patria. E ha cominciato a sparare. A se stessa.
Immaginate la scena.
Una frazione bavarese addormentata nel sole d’ottobre. Fienili, strade di campagna, quella pace tedesca che profuma di ordine e wurstel. E all’improvviso: uomini incappucciati, in mimetica, armati di fucili d’assalto che si aggirano tra gli edifici rurali. Uno spettro che ogni europeo ha imparato a temere in questi anni di tensioni. L’invasione. È arrivata.
I cittadini non ci pensano due volte. Chiamano la polizia. Quella vera, non quella dei film. E la polizia arriva. Madonna se arriva.
Forze ingenti. Elicotteri in volo. Il circo completo dell’emergenza nazionale. Gli agenti circondano l’area. Vedono gli uomini armati. Molti. Troppi. Scheisse. Non è un pazzo isolato. È un’operazione militare.
Respirano. Prendono posizione. Preparano le armi.
E qui comincia il balletto dell’assurdo.
Dall’altra parte, i soldati della Bundeswehr (perché sì, erano soldati tedeschi, ma nessuno l’aveva capito) vedono arrivare la polizia tedesca e pensano: “Perfetto! La simulazione funziona! Sono arrivati i ‘nemici’ proprio in orario, che efficienza!”
Aprono il fuoco con munizioni a salve. Bang bang. Fumo. Adrenalina. Realismo puro.
La polizia sente gli spari. Vede i lampi. Sente il fischio dei proiettili (falsi, ma questo non lo sa). E fa ciò che ogni poliziotto addestrato farebbe di fronte a terroristi che sparano: risponde col piombo. Quello vero.
PAM.
Un soldato cade. Colpito al volto.
Silenzio. Qualcuno urla nello sconcerto: “Sind wir Deutsch! SIND WIR DEUTSCH!” Siamo tedeschi!
Troppo tardi. La Germania ha appena sparato alla Germania pensando che la Germania stesse invadendo la Germania.
Benvenuti nell’esercitazione “Marshal Power”. Ottocento persone, 500 soldati, 300 civili tra polizia, pompieri e soccorritori, riunite per simulare la difesa nazionale da un attacco straniero. Peccato che nessuno avesse avvisato i protagonisti principali: la polizia locale e i cittadini.
“È stato un errore di comunicazione,” dichiarano poi le autorità.
Un errore di comunicazione.
Come dire che il Titanic ha avuto “un piccolo inconveniente con un cubetto di ghiaccio”. Come dire che Hiroshima è stata “una giornata calda”.
La polizia sapeva dell’esercitazione, certo. Ma pensava iniziasse giovedì. Non mercoledì. Un giorno di differenza. Ventiquattro ore. Che vuoi che sia? Le invasioni possono aspettare, no? Mica siamo barbari che attacchiamo senza rispettare il calendario.
I cittadini? Completamente all’oscuro. L’esercito aveva pubblicato informazioni sì, ma vaghe, generiche, il genere di comunicazione che ottiene lo stesso effetto pratico di un sussurro nel mezzo di un concerto heavy metal.
E così il ministro della Difesa ha ordinato una revisione dei protocolli mentre sui social tedeschi esplodeva una risata isterica, quel tipo di risata che ti prende quando l’assurdo è così totale che piangere sarebbe inadeguato.
Qualcuno ha evocato gli Sturmtruppen di Bonvi. Altri hanno postato meme su “l’efficienza tedesca”. Ma sotto le risate, sotto l’imbarazzo nazionale, c’è qualcosa di più inquietante che nessuno vuole guardare in faccia.
Il Gioco Mortale

Fermiamoci. Respiriamo. Guardiamo bene cosa è successo davvero.
Ottocento adulti, equipaggiati con milioni di euro di tecnologia militare, pagati dallo Stato, addestrati per anni, si sono riuniti per giocare alla guerra. Hanno deciso chi era amico e chi nemico. Hanno tracciato linee immaginarie. Hanno stabilito regole. Hanno detto: “Facciamo finta che…”
E poi altri adulti, con altre uniformi, altre regole, altro addestramento, sono entrati nel gioco senza sapere che era un gioco.
E qualcuno si è fatto male sul serio.
Non vi suona familiare?
Ogni guerra che è mai stata combattuta segue esattamente questo copione. Adulti che tracciano confini sulla terra e dicono “questo è nostro, quello è vostro”. Adulti che decidono chi appartiene alla squadra blu e chi alla squadra rossa. Adulti che distribuiscono uniformi diverse, lingue diverse, bandiere diverse, e poi si sparano addosso per difendere linee che hanno tracciato loro stessi.
La differenza tra i bambini che giocano alla guerra nel cortile della scuola e i soldati che si esercitano in Baviera? I bambini, quando cadono, gridano “Mi hai preso!” e poi si rialzano ridendo. I soldati cadono davvero. E qualcuno deve raccoglierli.
Ad Erding è successo qualcosa di straordinariamente onesto: per una volta, la maschera è caduta. Non c’era nemmeno la finzione del nemico straniero, del diverso, dell’altro. Erano tutti tedeschi. Tutti credevano di stare difendendo la Germania. E si sono sparati comunque.
Perché? Perché avevano uniformi diverse. Perché nessuno aveva spiegato bene le regole. Perché nell’istante dello scontro, nell’adrenalina del momento, non importava la nazionalità, la lingua, la storia comune. Importava solo: “Chi sta sparando è con me o contro di me?”
E questo, amici miei, è sempre la guerra. Sempre. Solo che di solito vestiamo il copione con giustificazioni più elaborate.
L’Illusione della Separazione
C’è un’antica storia zen. Un maestro chiede al discepolo: “Dove finisce la tua mano e comincia la mia?”
Il discepolo indica il punto dove le loro dita si toccano.
Il maestro scuote la testa. “Non c’è alcun punto. La separazione è un’illusione della mente.”
Ad Erding, quella illusione è stata perfetta. Due gruppi di esseri umani, cresciuti nella stessa nazione, parlanti la stessa lingua, governati dalle stesse leggi, si sono visti come nemici mortali per il tempo necessario a far fuoco.
La polizia vedeva terroristi. I soldati vedevano la simulazione. Nessuno vedeva esseri umani.
È esattamente, esattamente ciò che accade in ogni conflitto. Ragazzi di vent’anni da entrambe le parti di un confine che esiste solo nelle mappe, che hanno le stesse paure notturne, che chiamano “mamma” nella stessa intonazione universale del dolore, si ammazzano a vicenda perché qualcuno ha detto loro che appartengono a squadre diverse.
A Erding, per un momento accecante di chiarezza, non c’era nemmeno quella scusa. Non c’era il confine. Non c’era la lingua diversa. Non c’era la storia di odi antichi. C’era solo l’uniforme sbagliata nel posto sbagliato all’ora sbagliata.
E questo è bastato.
Hegel diceva che la storia si ripete: prima come tragedia, poi come farsa. Ma si sbagliava. La guerra non è tragedia poi farsa. È tragedia e farsa simultaneamente. Sempre lo è stata.
Tragedia per chi muore. Farsa per chi la organizza.
Ad Erding, per un giorno benedetto, la farsa è emersa senza il velo della tragedia. Ottocento persone ben pagate hanno giocato a un gioco così intensamente da dimenticare che era un gioco. Altri si sono uniti al gioco senza sapere che era un gioco. E tutti insieme hanno creato violenza reale nel tentativo di simulare violenza immaginaria per prepararsi a violenza futura.
Leggete di nuovo questa frase. Lentamente.
Violenza reale per simulare violenza immaginaria per prepararsi a violenza futura.
È la summa della follia umana. È l’essenza della condizione militare. È la guerra spiegata a un bambino di cinque anni, tranne che un bambino di cinque anni vedrebbe immediatamente quanto è stupido.
Il Nemico ha la Nostra Faccia

Il soldato ferito è stato portato in ospedale in elicottero. Dimesso la sera stessa. Fortunato. Il proiettile l’ha solo sfiorato.
Ma immaginate cosa deve aver pensato in quell’elicottero. Immaginate lo shock, la confusione. “Mi hanno sparato i tedeschi. Io sono tedesco. Stavo difendendo la Germania. Mi hanno sparato i tedeschi.”
In quel momento, in quella vertigine esistenziale, quel soldato ha capito qualcosa che l’umanità cerca disperatamente di dimenticare da millenni: il nemico ha sempre la nostra stessa faccia.
Il poliziotto che ha premuto il grilletto, cosa pensava? “Sto difendendo i cittadini. Sto facendo il mio dovere.” E aveva ragione. Stava facendo il suo dovere. Stava difendendo i cittadini. Dal loro stesso esercito, a loro insaputa, in una guerra che nessuno aveva dichiarato contro nessuno.
È perfetto. È poetico. È terrificante.
Perché dimostra che non serve un nemico reale per creare violenza. Serve solo la percezione del nemico. Serve solo dire: “Quello è l’altro. Quello è il pericolo. Quello va fermato.”
E in un battito di ciglia, il collega diventa l’avversario. Il connazionale diventa la minaccia. L’essere umano diventa il bersaglio.
Quanto ci vuole? In questo caso, qualche minuto tra le cinque del pomeriggio di mercoledì e l’arrivo delle ambulanze.
Quanto ci vuole in una guerra vera? Più o meno lo stesso. Qualcuno grida “Al nemico!” e il ragazzo che fino a ieri era semplicemente un ragazzo che giocava a calcio in un altro paese diventa il mostro che devi uccidere per sopravvivere.
La Guerra Gioca da Sola
L’esercitazione “Marshal Power” è continuata. Proseguirà fino al 29 ottobre. Con protocolli di comunicazione migliorati, presumibilmente. Con più attenzione. Con più sicurezza.
Ma la domanda vera, quella che nessuno fa, è: perché continuiamo a giocare a questo gioco?
Ottocento persone che simulano la difesa da un nemico che non esiste. Milioni di euro spesi per prepararsi a una guerra che forse non arriverà mai. E se arriverà, sarà perché qualcun altro, da qualche altra parte, sta facendo la stessa identica esercitazione, sta giocando allo stesso identico gioco, sta tracciando le stesse identiche linee immaginarie.
La guerra si alimenta da sola. Non ha bisogno di nemici reali. Crea i suoi nemici semplicemente preparandosi per loro.
Ad Erding, la guerra ha giocato da sola. Ha fatto le parti di tutti i protagonisti: aggressore e difensore, attaccante e vittima, invasore e invaso. È stata una guerra civile in cui tutte le parti civili erano dalla stessa parte ma non lo sapevano.
È stata la guerra nella sua forma più pura: violenza organizzata che esiste per il semplice fatto di essere stata organizzata.
Mentre scriviamo questo pezzo, in qualche base militare europea, altri soldati si stanno preparando. In qualche aula, altri generali stanno pianificando. In qualche ufficio ministeriale, qualcuno sta approvando il budget per la prossima esercitazione.
E tutti, tutti, sono convinti di stare lavorando per la pace. Per la sicurezza. Per la difesa.
Nessuno si ferma a chiedersi: difesa da cosa? Se tutti ci stiamo preparando a difenderci, chi è che attacca?
La risposta è agghiacciante nella sua semplicità: ci stiamo preparando a difenderci da tutti gli altri che si stanno preparando a difendersi da noi.
È un gioco di specchi dove ogni riflesso punta un’arma contro il riflesso successivo, all’infinito.
Ad Erding, per un giorno, gli specchi si sono rotti. Il riflesso ha sparato all’originale. L’originale ha sparato al riflesso. E nessuno dei due era reale.
Era tutto simulazione. Tranne il sangue.
Il soldato ferito tornerà al servizio. La polizia riprenderà le ronde. I cittadini dimenticheranno lo spavento. Le indagini concluderanno con un rapporto burocratico.
Ma quella pallottola vera, sparata per errore in un gioco che simula ciò che speriamo non accada mai, quella pallottola racchiude tutta la verità sulla guerra che continuiamo a non voler vedere:
Non abbiamo bisogno di nemici per farci del male. Ci facciamo male benissimo da soli.
E lo chiamiamo difesa nazionale.
L’esercitazione continua. La prossima settimana, stessa ora, stesso posto. Portate il vostro elmetto. E verificate bene da che parte state giocando. Potrebbe fare la differenza tra simulazione e ospedale.
Oppure no.
