C’è un’immagine che rimane impressa nella memoria: la statua di San Francesco di Paola issata su una barca, scivola lenta sulle onde, circondata da altre imbarcazioni colme di fedeli. I canti si mescolano al rumore del mare, i fiori gettati in acqua galleggiano come preghiere sospese. È un rito che appartiene da secoli alla pietà popolare delle comunità marinare calabresi, un gesto che unisce sacro e quotidiano, fede e speranza.
Ma guardando più a fondo, questo atto porta con sé una contraddizione potente e struggente: un santo sul mare, protettore dei naviganti, mentre lo stesso Mediterraneo oggi è divenuto teatro di morte, cimitero silenzioso per migliaia di uomini, donne e bambini in fuga.

Il santo dei marinai e delle tempeste
San Francesco di Paola, patrono della Calabria e della gente di mare, è ricordato nei racconti popolari come colui che seppe attraversare lo Stretto di Messina sul suo mantello disteso sulle acque. Da allora la sua immagine è legata alla forza di chi affronta il mare e al conforto per chi vi trova il sostentamento o l’esilio.
La processione marittima è la traduzione concreta di questa fiducia: portare il santo tra le onde significa affidare a lui i pericoli della navigazione, chiedere protezione per i pescatori, per i migranti, per chiunque debba affrontare l’ignoto che l’acqua custodisce.

Il mare: madre e tomba
Nelle comunità costiere il mare è ambivalente. È madre generosa, che offre pesce, vie di comunicazione, respiro e bellezza. Ma è anche tomba implacabile, capace di inghiottire vite e storie in un istante. È questa ambivalenza a rendere il rito così forte: portare un santo a mare significa cercare di rendere addomesticabile l’incontrollabile, sacralizzare un elemento che spaventa e seduce allo stesso tempo.
Ed è proprio qui che il rito si fa dramma contemporaneo: oggi il Mediterraneo non è solo il mare dei pescatori e dei marinai, ma è il mare dei migranti, il mare delle speranze infrante. La pietà popolare incontra così una ferita collettiva che non può essere ignorata.

Una devozione che parla al presente
Antropologicamente, la processione a mare è un rito propiziatorio e comunitario: l’intera collettività si riconosce in un gesto, rinnova un patto con il sacro, ricorda i caduti, affida i vivi. Ma in questo tempo storico, quel santo che scivola tra le onde sembra farsi anche testimone di chi nel mare ha perso tutto, perfino la possibilità di essere ricordato.
San Francesco sulle barche non è più soltanto il protettore dei pescatori. Diventa icona di un paradosso: invocato per salvare chi affronta il mare, ma immerso in uno scenario dove il mare è già diventato tomba di chi cercava vita.

Condivisione e memoria
Guardando le immagini di queste processioni, ognuno può ritrovarvi un frammento di sé: la nostalgia di chi ha lasciato la propria terra, il timore di chi affronta il mare, la fede semplice di chi si affida a un santo. Sono riti che non parlano soltanto di religione, ma di comunità, di fragilità, di speranza.
Ed è per questo che vorrei invitare chi legge a condividere le proprie impressioni. Cosa significa per voi vedere un santo portato tra le onde? Quali emozioni suscita l’idea di un mare che è insieme vita e morte, madre e tomba, speranza e dolore?

👉 Scrivete nei commenti o inviatemi un vostro pensiero: sarà un modo per trasformare questa memoria collettiva in un dialogo vivo. Perché il mare divide, ma le parole possono unire.

Il mare unisce, non divide, non allontana ma avvicina. Se non ci fosse il mare saremmo costretti a percorrere lunghe discese e impervie risalite.